Nella rubrica “Etichetta vincente” abbiamo analizzato le seducenti etichette progettate da Kidstudio per il ristorante stellato La Bottega, a Ginevra. Abbiamo avuto il piacere di colloquiare con Marco Innocenti, uno dei due soci fondatori (l’altro è Luca Parenti) che ci ha introdotto l’agenzia, la filosofia che muove giornalmente il loro lavoro e l’approccio progettuale.
LD: Ciao Marco, potresti introdurci Kidstudio?
K: Kidstudio ha ormai 22 anni. È sempre stato uno studio relativamente piccolo (tra i 4 e i 10 collaboratori, nel tempo – attualmente siamo 5 designer e una responsabile della logistica e dell’amministrazione) e ha spaziato nella produzione praticamente su ogni campo della grafica: ci siamo occupati di turismo, istituzioni, cultura, editoria e ogni tipo di azienda commerciale. Ultimamente, per puro caso, abbiamo una buona fetta di lavoro attorno al food, sia questo nella produzione o nella somministrazione.
Per noi ogni progetto è una sfida nuova e, sebbene nel tempo ci siamo fatti un ottimo background tecnico su diversi argomenti (il packaging di lusso, per esempio), siamo più stimolati quando possiamo affrontare un campo nuovo.
Forniamo servizi completi per il web, per l’editoria, per il labeling e il packaging e, ovviamente, per il branding, che rimane il nostro punto di forza proprio grazie all’approccio moderno, concettuale e minimalista con cui l’affrontiamo. Per noi, il logo è un concetto superato e vogliamo sempre di più esprimere l’anima di un’azienda o di un prodotto attraverso un linguaggio più ampio e un sistema di identità visiva.
Lavoriamo sempre in collaborazione totale (in antitesi con molti altri studi che, invece, mettono i designer in competizione tra di loro, formula che non abbiamo mai trovato costruttiva) e cerchiamo di mantenere un ambiente informale, divertito e anche un po’ bohémienne, se mi passate il termine.
LD: Dove nasce il vostro interesse per il Packaging Design?
K: Diciamo che un designer di grafica che non ha piacere di realizzare un packaging, con le sue forme, il suo stile, le nobilitazioni e l’uso dei materiali, è uno “strano”.
Il bello, nel nostro lavoro, una volta ultimato il progetto, è vederlo realizzato. Cosa più di una confezione o di un’etichetta potrebbe dare le migliori vibrazioni? Sentire la carta, testare i riflessi sui metalli, percepire la fisicità del mezzo, spesso incomparabile con un foglio di carta intestata o una vetrofania sulla vetrina di un negozio. Il packaging è difficile poiché unisce molte problematiche, ma allo stesso tempo è più soddisfacente: lavorare sul disegno, sulle forme, sulle tecniche di stampa e cercare di far quadrare il cerchio – infine – con le esigenze legate alla sua utilità è, ogni volta, l’equivalente di una tesi di laurea. Con la differenza che produciamo un pack ogni due settimane e non una volta nella vita!
LD: Cosa vuol dire progettare un’etichetta?
K: Significa capire l’essenza di un prodotto.
Un’etichetta – tolte le parti di legge, che molto spesso creano paletti da aggirare per rimanere nella normativa ma produrre ugualmente qualcosa di piacevole – ha la stessa valenza di un marchio o di un’immagine coordinata: sarà il volto del prodotto, sarà la sua anima. Sarà la copertina per la quale un cliente sceglierà, in metafora, quel libro. È, inoltre, uno dei pochi lavori dove la nobilitazione, la stampa particolare, il design asimmetrico (nel rapporto chiarezza/emotività) trovano spazio più facilmente, soprattutto in un’era come quella attuale, dove il risparmio è la prima preoccupazione del cliente.
LD: Abbiamo parlato del progetto per “La Bottega”, puoi raccontarci qualcosa di più?
K: In totale, La Bottega di Ginevra è il lavoro attorno al quale abbiamo potuto lavorare con più libertà. Di solito il cliente resta l’ultimo giudice di ogni lavoro, non sempre con cognizione di causa, e questo sappiamo essere il più grosso scoglio da affrontare per ogni designer, soprattutto i più giovani e inesperti. Con La Bottega abbiamo avuto carta bianca da subito, non appena individuato lo stile che volevamo dare al locale.
Per sua natura, uno Chef con ambizioni Michelin è una persona educata al bello, che capisce l’importanza della qualità e dell’ampio respiro e che, quindi, sa riconoscere un lavoro all’altezza da un semplice fregio che rientra nei suoi gusti. La pulizia dei suoi piatti (che, come ricade nella facile ironia degli agnostici, hanno il vuoto e i grandi margini come leit motif) va in parallelo con la pulizia della grafica: elementi spesso complessi, stratificati che sono al centro di quadri più ampi. Per non parlare della possibilità, intrinseca al mercato di riferimento, di parlare per aneddoti, metafore e stratificazioni invece di presentare un cuoco coi baffi al centro del discorso.
LD: Che ruolo ha avuto lo chef Gasbarro nel progetto? Selezionando personalmente i birrifici artigianali fiorentini, ci chiediamo se sia intervenuto nel processo creativo?
K: Lo ha fatto, specialmente nella fase iniziale, scegliendo di getto la proposta che più raccontava l’essenza del suo ristorante (si trattava del primo approccio, per cui era una conoscenza tutta da fare). Poi ha continuato mostrando costantemente una grande attenzione al nostro lavoro, suggerendo piuttosto che correggendo, dialogando piuttosto che dando ordini e dimostrandoci sempre la sua totale fiducia. Ovviamente i concetti di base sono suoi: noi da questo seme abbiamo sempre cercato di far crescere un albero dalle infinite ramificazioni. Ci siamo riusciti, va detto, anche e soprattutto per la sua capacità di accettare ogni sfida, con coraggio, invece che rintanarsi nella paura di sbagliare come fa il 98% di tutti i suoi competitor (anche al di fuori del mercato di riferimento).
LD: Com’è nata la collaborazione con Stefania Pelliccia? Il concept era già chiaro o è stata una soluzione a cui si è arrivati?
K: Stefania è una nostra collaboratrice freelance con una mano particolarmente adatta al tipo di illustrazione che cercavamo: il tratto classico e il disegno a matita (a “lapis”, come si dice a Firenze!) parlavano la stessa lingua – fatta di artigianalità, heritage e gusto – del progetto di design e del ristorante. Noi abbiamo chiesto (talvolta genericamente) delle illustrazioni su un tema (da principio cibo, poi evolutosi nella criptozoologia della Chimera e del Leviatano) e lei ha lavorato dialogando con noi su ogni pezzo. Va da sé che, senza una mano così felice, il prodotto finale sarebbe stato sicuramente menomato.
Il passaggio dalle illustrazioni del cibo alle bestie immaginarie è avvenuto in parte per sua proposta, quando ci ha mostrato la Chimera nel momento in cui le chiedevamo animali che “esprimessero la birra”; in questa maniera siamo riusciti a rimanere sul sentiero scavato fino ad allora, che ci ordinava di parlare dell’essenza del ristorante piuttosto che dei suoi prodotti. Così la Chimera di Arezzo è diventata sinonimo di quella Italia da leggenda, spina dorsale del progetto allargato che è La Bottega, che nessuna “pizzeria buonissimo boulognaise” potrà mai avvicinarsi a emulare.
LD: Cosa ne pensate dell’attuale scena della grafica italiana?
K: Pensiamo che stia migliorando molto. Grazie a una nuova presa di coscienza di tutto il sistema (togliamo quelli, clienti e progettisti, che non capiranno mai e che ormai fanno mercato a sé) si trova una nuova scuola, per certi versi straordinariamente italiana e riconoscibile. Fuori dal manierismo e dal manualismo – tutta roba che aborriamo con decisione – si sente il rifiorire del “bello” (nella sua accezione più ampia, con la quale riempiamo tre ore di lezione all’Università) in ogni dove.
C’è più dialogo tra i progettisti – sta iniziando a venire meno quel feudalesimo anni Ottanta che ha quasi distrutto questo mestiere – e, in linea generale, più attenzione al “progetto” come elemento fondante di ogni lavoro; soprattutto a Firenze, che sta sempre di più diventando fucina di talenti e di pensiero laterale, speriamo un giorno prossimo venturo al centro di un più grande atelier della comunicazione visiva.
Photoshop del “cuggino” sta perdendo di potenza, schiacciato da una ritrovata cultura e da un lavoro più pensato e meno sperimentato al computer.
Il futuro è tutto da vivere.
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